A cosa servono oggi gli umani? Giulio Xhaet e la contaminazione dei saperi

Contaminati

Le tecnologie digitali hanno avuto un forte impatto sulle nostre vite, accrescendo le nostre possibilità su molti fronti, dall’informazione alla produttività, dalla socializzazione alla comunicazione. Di contro hanno provocato un’accelerazione vertiginosa e hanno aumentato in maniera esponenziale le competenze e le capacità richieste a ognuno di noi tanto nella vita privata quanto nel lavoro. Una vita più lunga, intensa, ma anche fluida e con vari gradi di incertezza è quella determinata da un mondo interconnesso caratterizzato dall’automazione di molti processi e da una complessità crescente. L’intelligenza artificiale pervade molti ambiti della nostra vita mettendo al centro di decisioni e processi gli algoritmi. Non è una novità: gli algoritmi, intesi come soluzioni a un problema articolate in un numero finito di passaggi, sono sempre esistiti, ben prima delle tecnologie digitali. Tuttavia, se quelli tradizionali necessitano del fattore umano per la loro attivazione, quelli digitali introducono meccanismi automatici o semiautomatici.

Siri, Spotify, Netflix, i motori di ricerca web, i consigli per gli acquisti online funzionano tutti sulla base di algoritmi digitali che gli permettono di dedurre e immagazzinare informazioni su di noi al fine di offrire proposte e soluzioni sempre più adatte alle nostre esigenze. Grazie al machine learning che utilizza metodi statistici per migliorare le prestazioni delle macchine e il deep learning che utilizza reti neurali modellate sul funzionamento del cervello umano, le tecnologie alla base dell’intelligenza artificiale apprendono dal modo in cui le usiamo. Con l’uso e il tempo, al contrario di quanto avviene per il nostro cervello che tende al deterioramento, si velocizzano, diventano sempre più accurate ed e efficienti.

Davanti a questo scenario che pare svalutare il potenziale umano individuale, una risposta possibile, ci dice Giulio Xhaet, è la capacità e la predisposizione che ognuno di noi ha alla contaminazione. Transdisciplinarità e multidisciplinarità, non specializzazione, pensiero divergente sono dei trend che nascono dalla specifica necessità di rispondere alla meccanizzazione e all’automatismo per riscoprire il valore aggiunto che ciascuno può offrire. Sono numerosi gli autori che hanno affrontato il tema sottolineando la necessità di un approccio polidimensionale ai fini di un pieno sviluppo del potenziale personale e anche per il riposizionamento in un mercato in rapido cambiamento. The Polymath di Waquas Ahmed, The Medici Effect di Frans Johansson, How to be everything di Emily Wapnik sono solo alcuni dei titoli di riferimento.

Xhaet sottolinea come molti leader, rivoluzionari, intellettuali, educatori, scienziati che hanno cambiato la storia erano fondamentalmente poliedrici, trasversali rispetto ai diversi ambiti della conoscenza, capaci di dar vita a cortocircuiti del sapere. La consapevolezza della potenzialità espressiva della poliedricità ha ispirato i fondatori di molti centri di formazione più o meno istituzionali, pubblici e privati. Nell’ambito del design c’è una lunga tradizione in tal senso, basti pensare al Black Mountain College caratterizzato da grande libertà e forte sperimentalismo artistico, ma numerose sono anche le esperienze contemporanee che spaziano tra fisica, chimica, storia e filosofia, arte e informatica. Tra queste meritano menzione il Center for Science and Imagination dell’Arizona, la London Interdisciplinary School, il Minerva project di San Francisco o il modello della Finnish School dove gli studenti non lavorano più per materie, ma scelgono un macro argomento impostando attorno ad esso un’attività progettuale in team.

La contaminazione è ciò che ci permetterà forse di arrivare dove non arrivano le macchine: ad apprendere per approfondimento e propagazione per mezzo di un atteggiamento caratterizzato da umiltà e passione, a tentare soluzioni apparentemente illogiche, a prendere decisioni in situazioni complesse senza dover necessariamente semplificare le cose o ridurre i problemi; a superare le bolle di conoscenza e i network chiusi. La Contaminazione di Xhaet è un tema che si sta imponendo in diversi ambiti disciplinari. Ricorda un po’ il crossbench practitioner dell’architetto tedesco Markus Miessen, l’estraneo disinteressato che agendo fuori contesto porta uno sguardo nuovo e davvero critico rispetto a pratiche cristallizzate e soluzioni che non sono più tali.

Jonathan Pierini

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